
NEXT GEN: AIC INCONTRA SALVATORE LANDI
NEXT GEN
a cura di Vincenzo Condorelli AIC, IMAGO
Con NEXT GEN, AIC apre una finestra sulle nuove voci della cinematografia italiana, raccontando i percorsi, le sfide e le visioni della prossima generazione di cinematographers. Attraverso interviste, approfondimenti e racconti di esperienze sul set, questa rubrica darà spazio ai talenti emergenti, esplorando il loro approccio alla luce, alla narrazione visiva e alle nuove tecnologie. Un’opportunità unica per scoprire chi sta contribuendo a ridefinire il linguaggio cinematografico del futuro.
Abbiamo incontrato Salvatore Landi, attualmente nelle sale con il documentario dedicato a Pino Daniele [“Pino”].
Qual è stato il momento in cui hai capito che la fotografia cinematografica sarebbe stata la tua strada? C’è un’immagine, un film o un’esperienza che ti ha fatto scattare questa consapevolezza?
Se ci penso, anche se sono nato e cresciuto in una famiglia dove nessuno aveva a che fare con il cinema, mio nonno paterno aveva una grande passione per la fotografia e per le riprese amatoriali, ricordo questo ripostiglio con vecchie macchine fotografiche, pellicole super 8 e addirittura un proiettore; anche mio padre era un divoratore di film e ricordo a casa negli anni ’80 un grande traffico di vhs a noleggio. Credo che questi semi impiantanti nella mia infanzia abbiano iniziato a germogliare alla fine del liceo quando mi feci prestare una reflex da uno zio per partecipare a un concorso di fotografia scolastico, gli incoraggiamenti dei professori ad alimentare questa nascente passione mi portarono a Roma nei primi anni 2000 a studiare storia e teoria del cinema al Dams. Nella casa dove vivevo, con il mio amico Giuseppe, mettemmo su una camera oscura completa dove ho iniziato a sperimentare lo sviluppo e la stampa del bianco e nero. Fu sempre lui a propormi di partecipare al bando del Centro Sperimentale ed è stato lì che ho capito che le due passioni, il cinema e la fotografia potevano fondersi. Passavo le giornate tra il teatro di posa dove avevo a disposizione le macchine da presa, le lenti, la pellicola, le luci, i carrelli, la scenografia e poi pomeriggi in camera oscura a perfezionare le tecniche di sviluppo e stampa insieme a Mario Cimini. L’analisi delle stampe con Rotunno e le giornate in teatro di posa sono state “illuminanti” e più passavano i giorni e più sentivo che stavo imparando un mestiere.
Guardando indietro ai tuoi anni di formazione al Centro Sperimentale, quale insegnamento ritieni sia stato il più prezioso nel tuo percorso, al di là degli aspetti meramente tecnici?
Credo che l’insegnamento più importante mi sia stato dato da Giuseppe Rotunno, il suo rigore e il suo rispetto per questo lavoro sono stati un esempio fondamentale senza il quale, probabilmente, non sarei riuscito a realizzarmi in questo mestiere. Prima avevo un’idea della disciplina legata a qualcosa di conservativo e autoritario, ma con lui ho capito che può diventare un metodo per non disperdere le energie e incanalarle per esprimere al massimo la creatività e la tecnica. Credo che al di là delle competenze tecniche e del talento, sia necessario saper stare al mondo, avere una cura per il nostro lavoro e quello degli altri, fare cinema significa anche avere a che fare con decine e decine di persone che mettono a disposizione le proprie competenze e la collaborazione è il segreto del successo di un progetto, a mio avviso. Quindi, l’immagine di Rotunno che a 85 anni era il primo ad arrivare a scuola e ci aspettava al bar per fare colazione è la visione che mi aiuta a superare anche le peggiori giornate di lavoro.
Nel 2015 hai esordito condividendo la fotografia di Bella e Perduta con il suo autore Pietro Marcello. Cosa puoi dirci di quella esperienza?
L’incontro con Pietro Marcello è avvenuto grazie a Daria D’Antonio, che mi ha chiamato come assistente per delle riprese che dovevano essere un primo capitolo di questo progetto di Pietro, un viaggio tra le bellezze perdute in Italia. Poi il film si è interrotto per più di un anno, Daria ha preso altri impegni e quando si è trattato di ricominciare, sapendo della mia esperienza con la pellicola, Pietro mi ha proposto di iniziare insieme questo lavoro. È stato un viaggio lungo e intenso, all’inizio andavamo in giro nei dintorni di Roma io, lui e il suo aiuto, in camper, avevo un Aaton minima e qualche rullo di super 16 nel frigo, era uno scouting di paesaggi e personaggi, ma anche un modo per conoscerci. Poi, una volta trovata una sinergia ci siamo addentrati in Campania, un territorio a noi più familiare e in particolare nel Casertano dove abbiamo trovato Tommaso e la Reggia di Carditello. È stata una lavorazione molto formativa, ho provato ad applicare la tecnica per riuscire a girare in ogni situazione di luce con risorse scarse o nulle, ma spesso ero costretto a metterla da parte per dare spazio al reale, all’imprevisto e all’irripetibile. Anche umanamente è stata un’esperienza che mi ha arricchito molto, come è documentato nel film, erano gli anni della terra dei fuochi e noi giravamo in camper in un triangolo di terra tra discariche abusive, Casal di Principe e viadotti della Tav, spesso, dormivamo in camper ospiti nella fattoria del protagonista.
In Bella e Perduta avete utilizzato una grande varietà di pellicole, incluse diverse emulsioni scadute. Qual è stato il tuo approccio con riferimento a questa scelta creativa?
Non avevamo grandi risorse, ma la scelta di filmare in pellicola era un dogma per Pietro, per cui andavamo a recuperare rulli ovunque, da amici, nei magazzini delle produzioni, nei laboratori e spesso erano scadute. Il secondo passaggio era l’analisi dei negativi in laboratorio con dei test sensitometrici, era sempre un momento magico quando il chimico arrivava con i grafici delle curve, sorridente perché alla fine anche dalle pellicole più vecchie ci potevamo sempre tirare fuori qualcosa, anche se imperfetto, ma comunque sorprendente. Poi, catalogavo tutti i rulli e li andavo a tagliare in camera oscura, perché i magazzini della macchina da presa che usavo erano da 60 metri, avevano la bobina al posto del nucleo e l’emulsione esterna. Insomma, prima di arrivare sul set ed esporre la pellicola c’era un bel lavoro di preparazione. Ovviamente, per quanto il processo avesse un controllo, l’imprevisto era dietro l’angolo, ma abbiamo deciso di fare di queste imperfezioni una cifra stilistica del film, che infatti visivamente ha diverse anime, un primo blocco è decisamente più sporco e impreciso, un altro ha un’atmosfera più magica e, infatti, è quello realizzato in una seconda fase, quando avevo anche una piccola troupe a supportarmi e non dovevo più illuminare la scena, caricare i magazzini, stare in macchina e farmi i fuochi da solo!
Il tuo film di finzione successivo Un Giorno all’Improvviso selezionato, tra gli altri, nella sezione Orizzonti a Venezia nel 2018, ha ottenuto riscontri molto positivi della critica. Com’è nata la tua collaborazione con il suo regista Ciro D’Emilio e come si è evoluta a partire da questo film?
Ho incontrato Ciro D’Emilio sul set di un altro film di cui stavo curando la fotografia e sua moglie era la segretaria di edizione, lui veniva a trovarci nel fine settimana e mi parlava di questa sceneggiatura che aveva nel cassetto. Dopo un po’ di tempo mi ha richiamato dicendomi che aveva trovato i soldi per girare il film, la sua opera prima, e che voleva farlo insieme a me. Sono stato travolto dalla sua energia e dal suo carisma che trovo essere l’ingrediente segreto che ha permesso al film di fare la strada che ha fatto: in concorso a Orizzonti e Anna Foglietta candidata ai David di Donatello e vincitrice del Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista. La storia era notevole e aveva una serie di elementi che sentivo nelle mie corde, un racconto di formazione che sembra essere attraversato dalla leggerezza della gioventù, ma che invece si scontra con la drammaticità della vita e finisce in tragedia. Ho anche pensato che potesse essere una grande occasione lavorare per la prima volta con una grande attrice come Anna Foglietta e supportare la messa in scena e la recitazione con una fotografia realistica ma non invasiva. Sul set ho avuto grande libertà creativa e le poche ma chiare indicazioni di Ciro rispetto all’atmosfera visiva sono state una guida fondamentale, sia in fase di scouting che durante le riprese. Volevamo emanciparci dallo stile gomorriano che imperversava in quegli anni e siamo andati a cercare geograficamente un’area che avesse caratteristiche paesaggistiche e urbanistiche differenti. Anche nel look ho puntato ad un approccio più delicato che portasse il punto di vista più vicino a quello di Antonio, il protagonista, un giovane adolescente dall’animo puro che si fa largo tra le difficoltà della vita. Sono felice che la collaborazione professionale con Ciro sia continuata, infatti abbiamo realizzato anche un secondo film insieme e ho il piacere di coordinare il corso di fotografia all’Accademia del Cinema Renoir, la scuola di cinema da lui fondata.
Lucania (2019), per la regia di Gigi Roccati, si distingue per uno stile visivo molto raffinato ed evocativo. Come hai impostato la fotografia di questo film con particolare riferimento al lavoro in location?
Le indicazioni del regista, ruotavano intorno al concetto di realismo magico e questa suggestione mi ha accompagnato fin dai primi sopralluoghi in Basilicata, siamo stati in luoghi fuori dal tempo, territori che mi hanno ispirato con i loro colori, i materiali e le texture. Da questi primi scouting è venuto fuori il look del film. Abbiamo anche individuato alcuni luoghi che ci sembravano iconici per il racconto e riadattato la scrittura di alcune scene proprio per permettere che fossero girati lì. Dal punto di vista tecnico avevo bisogno di qualcosa che valorizzasse il paesaggio e la scelta è caduta sul formato anamorfico e in particolare su una serie di lenti Lomo che hanno restituito alle immagini quel sapore antico, di territori perduti, un po’ magici ed evocativi. Ovviamente anche l’impianto illuminotecnico era ridotto all’osso, ma Gigi aveva impostato la lavorazione proprio con un assetto documentaristico e questo mi permetteva anche di avere la possibilità di girare all’orario ideale rispetto alle location, che dovrebbe essere una cosa scontata nel nostro lavoro, ma purtroppo, spesso non è così, perché le esigenze di fotografia non sono sempre la priorità in un piano di lavorazione di decine di settimane in cui si devono incastrare tanti elementi fondamentali.
Proprio in questi giorni esce in sala Pino che hai girato per la regia di Francesco Lettieri, dedicato al grande Pino Daniele e con la partecipazione di alcuni mostri sacri della musica contemporanea mondiale come Eric Clapton e Chick Corea. Ci racconti la genesi e realizzazione di questo progetto?
Questo lavoro ha per me un valore immenso per diversi motivi. Innanzitutto, per l’amicizia che mi lega a Francesco Lettieri da 25 anni, frequentavamo lo stesso liceo e siamo venuti insieme a Roma per studiare cinema, abbiamo fatto i primi cortometraggi insieme e ritrovarci dopo tanti anni è stata un’emozione intensa. Negli ultimi anni ho lavorato soprattutto su importanti produzioni seriali, dove dal punto di vista tecnico ho potuto fare passi in avanti confrontandomi con grandi professionisti e riuscendo in sfide significative, però avere la possibilità di tornare a girare con gli amici di una vita, nella propria città di origine è stata una boccata di ossigeno importante. Poi c’è stata la possibilità di filmare la Napoli contemporanea con la colonna sonora dei brani di Pino Daniele, quella con cui sono cresciuto, infatti nel film sono presenti dei videoclip che fondono le due epoche. Proprio per colmare questa distanza temporale volevamo una fotografia che potesse immergere lo sguardo dello spettatore in una Napoli eterna, confondendo le immagini di repertorio con quelle girate oggi. Allora abbiamo deciso di girare in digitale, ma di trasferire il montato in pellicola 35 mm. È un procedimento realizzato con Alessandro Pelliccia del laboratorio Augustus, con cui ho effettuato dei test di scrittura con l’Arrilaser su negativo 50 e 250 ASA, il tutto poi è stato scannerizzato in 4k e colorato insieme al resto del materiale di repertorio con il colorist Andrea Red Baracca. Il risultato è stato sorprendente, abbiamo ritrovato la consistenza, i colori, le dominanti, la grana e tutte le sporcature del negativo, ottenendo forse di più del risultato sperato.
Nella tua carriera c’è fino ad ora una regolare alternanza tra lavori di finzione e documentari: per quanto artificiosa possa essere questa separazione, qual è il tratto comune che, nella tua cinematografia, accomuna entrambi i generi?
Effettivamente, ripercorrendo insieme le tappe della mia carriera ritrovo questo filo rosso che attraversa la ricerca visiva; credo che alla base ci sia l’osservazione del reale. Probabilmente deriva dalla fotografia e dall’abitudine a trovare in ogni luogo e in ogni volto qualcosa di bello, avere la possibilità di catturare ovunque immagini potenti e significative, pezzi di storie e di vite. I luoghi parlano e ci raccontano, basta guardare e dedicare del tempo, ecco, il tempo è per me una componente fondamentale, soprattutto durante la preparazione di un lavoro, quando si tratta di un documentario è il tratto distintivo che segna anche un approccio diverso alle riprese, ritmi più flessibili e libertà di orari. Nella finzione è il tempo necessario alla ricerca delle location giuste che costituisce un passaggio determinante, è il momento in cui mi faccio realmente un’idea di quale potrà essere la fotografia del film. Mi lascio ispirare molto dai posti veri, anche se devono essere ricostruiti dalla scenografia. Forse questo può essere un tratto che accomuna i due generi, qualcosa che ha a che fare con il processo creativo più che con l’approccio tecnico.
Come vedi la nostra professione tra dieci anni? Come ti immagini?
Secondo me, il nostro è un mestiere che insegue la realtà e poche volte riesce ad anticiparla, sono rari i casi in cui il cinema ha posto la discussione su una prospettiva futura, i registi visionari sono pochi, rispetto agli scrittori, ai musicisti o agli artisti; credo che la nostra professione sia molto legata al presente e in esso radicata per ragioni produttive, strutturali e per i tempi di lavorazione. Sicuramente è però un settore in cui confluiscono le più moderne tecnologie, senza allargare il discorso a tutti i reparti che lavorano intorno a un film, e volendo analizzare solo il percorso di un direttore della fotografia dalla preparazione, passando per le riprese fino alla postproduzione, c’è una quantità impressionante di tecnologia a supporto del nostro lavoro, e per sua natura la tecnologia è in continua evoluzione, questo ci costringe a essere sempre aggiornati e rappresenta uno stimolo immenso. Se penso che nella mia breve carriera ho più volte dovuto sostituire e aggiornare metodi e strumenti di lavoro per rimanere al passo, sono certo che fra dieci anni ci sarà qualcosa che continuerà a semplificare il nostro processo creativo, la fortuna è quella di poter concentrare le energie proprio sulla creatività per poter raccontare sempre storie migliori, e chissà riuscire a raccontare il futuro, prevedere i disastri e magari contribuire a evitarli.