
NEXT GEN: AIC INCONTRA ROSARIO CAMMAROTA
NEXT GEN
a cura di Vincenzo Condorelli AIC, IMAGO
Con NEXT GEN, AIC apre una finestra sulle nuove voci della cinematografia italiana, raccontando i percorsi, le sfide e le visioni della prossima generazione di cinematographers. Attraverso interviste, approfondimenti e racconti di esperienze sul set, questa rubrica darà spazio ai talenti emergenti, esplorando il loro approccio alla luce, alla narrazione visiva e alle nuove tecnologie. Un’opportunità unica per scoprire chi sta contribuendo a ridefinire il linguaggio cinematografico del futuro.
Abbiamo incontrato Rosario Cammarota. Il suo ultimo film Ciao Bambino, regia di Edgardo Pistone, è in competizione ai David di Donatello 2025.
Come nasce la tua passione per la fotografia cinematografica, o cinematografia, e in quale momento della tua vita hai deciso di perseguire questa carriera?
La mia passione per il cinema nasce come un fuoco piccolo ma costante, non è mai stata una fiammata, non sono mai stato uno studente brillante a scuola, ma avevo una certa manualità nel disegno, quindi gli insegnati mi hanno consigliato di iscrivermi all’Istituto D’arte e lì ho fatto i miei primi incontri con il mondo della fotografia e dell’arte. Con alcuni docenti, tra cui Astone, e Edgardo Pistone, in particolare, con cui si è sviluppata non solo una grande amicizia ma anche la passione e l’amore per un certo cinema, autori e letture. Subito dopo mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove ho ritrovato Edgardo e fatto nuovi incontri come nel caso di Pasquale e Silvia (anche loro presenti in Ciao Bambino); insieme abbiamo realizzato i nostri primi cortometraggi di Edgardo (Per un’ora d’amore e Le Mosche che ha vinto miglior regia alla SIC al festival di Venezia).
Come hai ottenuto il tuo primo incarico nel reparto MDP? Cosa ricordi di quella esperienza?
Il primo incarico nel reparto MDP è stata forse un’esperienza inconsueta ma allo stesso tempo un incontro folgorante, ero su un docufilm chiamato Bagnoli Jungle di Antonio Capuano, un maestro, amo i suoi film e la loro vitalità. Subito dopo ho iniziato a lavorare su piccoli film e progetti che passano per Napoli contemporaneamente al percorso accademico.
La tua carriera si sviluppa, fin dagli esordi, tra Napoli e Roma. Cosa puoi dirci a proposito di questo “doppio binario”?
Napoli è una città dove sono cresciuto e dove ho fatto i primi passi, Roma la città in cui attualmente vivo e dove ho finito il mio percorso di studio. All’inizio è stato traumatico essere a Roma, poi ho fatto tanti incontri e ho ritrovato delle amicizie che oggi si occupano dello stesso lavoro, sono due città distanti a solo due ore di auto ma sono anche molto distanti per tante cose, in questo lavoro o almeno nella vita non ci devono essere confini, io, per fortuna o per il mio temperamento da randagio, riesco ad abituarmi presto ai cambiamenti.
Com’è iniziata la tua esperienza di DIT? Riscontri, nella tua esperienza personale, differenze notevoli tra ambito televisivo e cinematografico per quanto riguarda questo ruolo?
Mentre lavoravo sui set ho deciso di prendermi un anno sabbatico per studiare, ero insoddisfatto quindi mi sono iscritto alla Shot Academy, una scuola che si trova a Roma, e qui ho iniziato il mio percorso da DIT sui set; mi è sempre piaciuto essere al fianco del cinematographer e in un certo senso coadiuvare il suo lavoro, questo percorso mi ha fatto crescere tanto, ho conosciuto tante persone che mi hanno dato l’opportunità di imparare e di capire tante cose dandomi tanta fiducia. Vedere vari direttori della fotografia insieme ai Gaffer mettere la luce è pur sempre una grande ricchezza, reputo questo lavoro ancora un’arte di bottega dove certe cose o segreti si ereditano o scambiano con la giusta volontà. Ci sono delle differenze in base ai progetti che si fanno ma ovviamente, il dovere è sempre quello di accompagnare nel miglior modo possibile l’autore della fotografia. Personalmente posso dire che il lavoro del DIT su alcune serie mi ha fatto molto crescere nella velocità di esecuzione ma questo vale per qualsiasi ruolo.
Il tuo secondo lungometraggio, Ciao Bambino di Edgardo Pistone, Premio Opera Prima alla Festa del Cinema di Roma 2024, ti è valso critiche molto positive. Come è nata la scelta del bianco e nero? Cosa puoi dirci della sua esecuzione?
Dico con affetto e orgoglio che Ciao Bambino è stata la mia prima opera che ho seguito dall’inizio alla fine, ho fatto un lungo periodo di scouting e preparazione con Edgardo, credo che i film abbiano il dovere di essere trattatati con questo rispetto in questo mondo dove tutto è troppo veloce, ci deve essere dialogo. La parte della preparazione di un film è quella che mi diverte di più perché si scoprono tante cose, c’è tanto scambio, tanta adrenalina in una fase dove il film è solo qualcosa a livello potenziale. Sono stato fortunato e ho avuto al mio fianco degli ottimi collaboratori come Marcella Mosca, Daniele Fonassi e Pasquale di Sano che hanno dato alla preparazione una grande dedizione. Edgardo ha sempre lavorato in bianco nero pure sui corti che abbiamo fatto in precedenza, la scelta nasce dall’idea di creare una atmosfera sospesa, una sorta di acquario. Non volevamo sentire l’ingombro della città che vediamo continuamente da quando siamo piccoli, anche i fondi o tutto quello che era difficile da controllare lo abbiamo stilizzato e smussato. La prima scena dei tuffi infatti doveva restituire una certa eternità data da un non luogo, da un cielo terso e diamantino e da corpi che somigliavano a statue ma allo stesso tempo esili.
Dialogavamo su tutto rivedendo film e andando continuamente sulle location e mettendo in continua discussione le cose, abbiamo scelto le lenti che potessero essere più giuste per il progetto, questo anche grazie alle tre produzioni che ci hanno seguito nelle scelte (ANEMONE FILM, MOSAICON FILM, BRONX FILM). Nonostante Edgardo fosse alla sua prima opera ha sempre avuto un’idea di cinema, è una fucina di idee ed abbiamo parlato tanto dello stile e dei linguaggi che dovevano avere le scene, voleva che il film avesse respiro e libertà, non si doveva sentire la macchina cinema o creare qualcosa di artefatto. L’idea e i presupposti erano quelli di fare un film “en plein air” come libertà e racconto degli spazi, come si vede negli interni che sfondano tutti fuori sulla strada, quasi essendo un tratto unico senza separazione tra il dentro e il fuori. Tutto questo ci ha aiutato usando il bianco e nero allontanandoci dal realismo crudo di un documentario e a polarizzare i personaggi con la storia.
I ragazzi sono stati incredibili, questo grazie anche al lavoro che hanno fatto mesi e mesi prima ai casting.
Dal tuo primo lungometraggio, L’Ardore dei Timidi al secondo: analogie e differenze nel tuo approccio alla realizzazione dello stile visivo di ciascun film?
L’Ardore dei Timidi è stata un’opera collettiva, non firmo da solo la fotografia ed io ho fatto gli ultimi due episodi su cinque, posso dire che è passato un po’ di tempo da allora, e che ho aspettato tanto prima che si arrivasse a fare Ciao Bambino, un film così intimo. Non so di avere uno stile preciso ma di certo mi diverto molto quando si sperimenta tanto con la regia e si dà libertà alla messa in scena, mi fa pensare alla Nouvelle Vague ed è qualcosa che mi sprona tanto a cercare di fare il massimo.
Ci puoi dare un accenno ai tuoi progetti futuri?
Sono in attesa di piccole cose, sono un po’ scaramantico quindi evito sempre di parlarne molto prima.
Cosa pensi del concetto di “autorialita’” a proposito della nostra professione nel panorama contemporaneo della cinematografia italiana?
Credo sia molto complesso parlare di autorialità, almeno oggi vedo che il cinema italiano o certi autori fanno uno sforzo immane per cercare di fare un film dove magari alla base c’è un’idea di cinema o di linguaggio che poi si scontra con quello che è il contesto e il periodo che stiamo vivendo, c’è sempre paura che per un film non esista un pubblico, ci vuole tanto coraggio da parte di tutti per superare questo grosso scoglio che stiamo vivendo adesso. In questi anni ho visto diversi film italiani tra qui opere prime e sono molto fiducioso o almeno non perdo le speranze, il cinema italiano ha una forte tradizione ma non bisogna farsi schiacciare da questo peso che portiamo, vedo che stanno nascendo dei bravi autori e sono fiducioso.
Come ti immagini tra dieci anni? Come e quanto pensi che sarà per allora cambiata la nostra professione?
Domanda molto difficile, sarebbe triste avere la possibilità di prevedere il futuro, soprattutto il nostro lavoro è in continua evoluzione. Esiste una parte di neofiti sostenitori dell’AI, credo che essa possa agevolare e migliorare il nostro lavoro fino ad arrivare ad una coscienza propria un po’ come accade nel film Her di Spike Jonze, ma il vero progresso è nell’antico e da romantico credo che l’unico modo per sfuggire a questo è l’interpretazione di individui in carne ed ossa, il confronto nel nostro lavoro è tutto, le persone vanno coinvolte e c’è bisogno di più comunicazione che competizione e a volte lo scontro è una cosa sana.